Diventare madri in Italia è particolarmente difficile.
Non ci stancheremo mai di ripetere come lo stato sociale italiano sia assolutamente carente rispetto a quelli degli altri paesi d’Europa. Mentre negli altri paesi europei il welfare non è stato totalmente smantellato dalle logiche liberiste, qui in Italia si lanciano slogan sulla famiglia senza fare concretamente nulla.
Le donne italiane sanno bene che avere un bambino è una scommessa, perché saranno percepite come una zavorra da un sistema produttivo focalizzato soltanto sull’utile immediato e senza alcuna etica o prospettiva. Una novità, però, pone un argine a tutto questo e vi sveliamo le cinque conseguenze che comporta. La sentenza di Cassazione numero 24.245 tutela la lavoratrice che venga licenziata a seguito della sua decisione di sottoporsi alla fecondazione in vitro.
La sentenza dichiara nullo il licenziamento e sancisce che il diritto alla conservazione del posto di lavoro inizia già dalla volontà di diventare mamma e non solo dalla gravidanza accertata. Si tratta di un altro passo in avanti nel riconoscimento dei diritti dell’individuo come sovraordinati a quelli della produzione.
E veniamo alle cinque considerazioni utili. Innanzitutto, la sentenza rafforza la tutela della maternità con l’estensione della protezione già prima della gravidanza accertata. In secondo luogo, viene ribadito che il licenziamento è discriminatorio se si basa sul sesso e sulla possibilità di diventare mamma.
Gli stereotipi culturalmente retrogradi sono molto forti nel nostro Paese. Il nostro tessuto economico si regge su regole che antepongono il profitto al benessere dell’essere umano e le ricadute concrete sono tremende.
Il terzo punto riguarda il fatto che sebbene il datore di lavoro possa prevedere assenze per motivi sanitari connessi alla maternità, questo non giustifica un’interruzione definitiva del rapporto. È una riaffermazione del principio di continuità occupazionale che è un baluardo delle pari opportunità.
Eccezionalmente, anche nelle ipotesi in cui un licenziamento può essere legittimo, l’onere della prova, piuttosto pesante, è a carico del datore di lavoro.
Infatti, se c’è effettivamente la giusta causa, sarà il datore di lavoro a dover dimostrare che la fine del rapporto sia giustificata da questo e non dalla maternità. In ultimo, la previsione della possibilità di indennità sostitutiva della reintegra diventa preziosa tutte quelle volte nelle quali il luogo di lavoro è talmente tossico e discriminatorio (cosa spesso denunciata, specialmente al Sud) che tornare nella precedente occupazione sarebbe assai sgradevole.
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